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Enérgheia, energia all’opera

Enérgheia, energia all’opera

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Artemisia è un singularia tantum, un nome proprio che si usa solo al singolare anche quando, come in questo caso, racchiude e denota cinque pittrici: Francesca Bruni, Rita Carelli Feri, Renata Ferrari, Pea Trolli, Emanuela Volpe. Sono artiste legate dalla stessa postura morale, innanzitutto, che è quella della condivisione, degli spazi e delle idee, degli oneri e degli onori, e dalla stessa passione inossidabile per la figura: il corpo non svanisce mai dalla loro pittura materica e ricca di pigmento, o rarefatta e leggera quanto meticolosa, essenziale e precisa, sperimentale e innovativa.

Ai progetti -è ormai una preziosità da segnalare- dedicano pensiero, ben lungi dall’essere il contrario dell’azione: scartano e aggiungono del nuovo prima di contemplare la possibilità del riutilizzo di opere già realizzate. Sono energiche.

“Energia” è una parola chiave che ispira e motiva la manifestazione dell’EXPO 2015 (Nutrire il pianeta. Energia per la vita) e merita di essere riconsiderata con riguardo in relazione con l’arte. Aristotele inventò, letteralmente, questo termine, Energheia, mutuandolo da ergon, lavoro, opera. Per il filosofo greco l’energia non era una cosa determinata, qualcosa di semplicemente presente e percepibile, bensì di effettivo, in grado di provocare effetti. L’energia è al lavoro, è nel lavoro, così come l’opera d’arte è sempre all’opera perché genera e produce effetti, emozioni, sensazioni e riflessioni.

Ogni pittrice di Artemisia ha declinato in modo personale e riconoscibile la proposta tematica di EXPO, più insidiosa di quanto non sembri. Invita infatti a interrogarsi sulla necessità di produrre nutrimento, accudimento, per il pianeta che ha sempre nutrito e sostentato noi, che lo abbiamo però sfruttato senza scrupoli con spirito predatorio. Le risorse sono oggi risicate, insufficienti a sfamarci, benché la considerazione possa sembrare indulgere al catastrofismo facile nel nostro Occidente in crisi, certo, ma non ridotto in miseria. Siamo chiamati a una presa di coscienza responsabile, capace cioè di dare risposte nuove a problemi cronicizzati e quanto mai acuti.

La Madre Terra ci diventa figlia, chiede tutela, conforto, riparazione. La femminilità del mondo naturale, del mondo tutto potremmo anche dire, è un archetipo della più profonda delle psicologie collettive, nato dalla meraviglia per la generazione spontanea di frutti e cacciagione con cui i nostri lontani antenati, raccoglitori e cacciatori erratici, vi si rivolgevano con l’immaginazione, con la rappresentazione, con i riti e con le prassi quotidiane che assicuravano la sopravvivenza. La donna, come l’uomo, è mortale. La donna però genera, dà la vita, ne è gravida, la mette al mondo appunto, la offre al mondo superando la caducità dell’esistenza. Con la stanzialità, avvenuta non più di dieci, undicimila anni fa al massimo, l’essere umano ha appreso a coltivare la terra, procurandosi con il lavoro le proprie provviste, invece che raccogliendole semplicemente da un luogo finché aveva da offrirne, per poi lasciarlo alla propria rigenerazione.

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Emanuela Volpe coglie, citando Ernest Kallir, il disegno del segno. Ogni segno calligrafico ha una forma che le conferisce corpo, e come noto anche alla grafica, carattere, esattamente come un individuo. Del corpo linguistico Emanuela scopre la potenza comunicativa per addizione, sovrapposizione, fusione. Non confusione, ma fusione. Locus amenus dell’espressività poetica e dei suoi versi precisi, insostituibili come l’oggetto d’amore per l’amante, il supporto pittorico dell’artista diventa pagina, ma la pagina originaria diventa tela, e la scrittura si fa pura immagine. La citazione poetica viene riscritta, ripetuta infinite volte fino a diventare illeggibile, per consentire la lettura di una figura: un cuore rosso fuoco e sfrangiato di palpiti per il sonetto Non t’amo di Pablo Neruda; un volo color papavero su un cielo fiordaliso per Gabbiani, di Vincenzo Cardarelli; una deflagrazione lattiginosa brillante, diafana e avvolgente, che si espande a penetrare il buio assoluto per M’illumino di immenso di Giuseppe Ungaretti; un arcobaleno odoroso, fragrante di riverberi pastello per i versi Sufi La Rosa di Hafez, ritratta in pochi petali di un candore vittorioso, sbocciato dal nero più denso; un groviglio inestricabile della follia che l’ha resa vulnerabile, vittima e guerriera,  vela il volto di Alda Merini: l’intrico che porta sulla sua pelle è corpo linguistico delle parole aforismatiche con cui la poeta stessa si era definita: sono una piccola ape, mi piace cambiare colore. Uno specchio montato all’interno dell’opera deforma quel che vi si riflette, poiché alla poesia non si può chiedere la registrazione, il rispecchiamento dei fatti. Altre volte Emanuela utilizza lo specchio in modo anticonvenzionale, o volutamente illusorio. Ne La bellezza per esempio, opera calligrafica che contiene il testo sulla bellezza di Khalil Gibran, tra i volti come apparsi in sogno in un fondo placentare scurissimo di Maryln e Michael Jackson, affiora una superficie geometrica argentea in tutto simile a uno specchio: non è però riflettente, alludendo così all’invisibilità della bellezza autentica, alla sua dimensione interiore, “immagine da vedere a occhi chiusi” come scrive lo stesso Gibran.

Cristina Muccioli

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Né arcaica né moderna, né paleolitica né contemporanea, ma eterna è la Venere di Willendorf, statutetta di circa 26 mila anni fa rinvenuta in Austria, restituitaci pittoricamente dall’artista. I suoi seni gonfi di nutrimento, le sue natiche, i fianchi possenti, il ventre debordante, concorrono con tutta la predominanza di quei pieni sul vuoto intorno a lei, a formare la sagoma di un uovo, promessa di schiusa, di vita, di rinnovamento, di volo. Gli uccelli erano ponte tra la dimensione celeste e quella terrestre, messaggeri alati, archetipi degli angeli covati da una donna, da una dea, da una Venere che, si credeva, generasse vita da sé, dentro di sé. E così da sé si scrive in questa immagine irradiante luce ambrata, calda, a ricordarci che se patria deriva da pater, la lingua come la terra ci è madre.

 

Quando: Vernissage e cocktail il 2 aprile 2014 alle ore 18,30 con introduzione di Cristina Muccioli, critico d’arte.

Dove: Galleria Artepassante, stazione MM di Porta Venezia.

Finissage: il 30 aprile 2014 alle 18,30

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